Dedico questa poesia alla mia città di origine, Genova, il cui nome dà il titolo al componimento.
"Janua Picta", dal latino "Porta dipinta", poiché i marinai di tutte le latitudini che vi approdavano dal mare, potevano rimanere subito colpiti dai colori sgargianti dei suoi palazzi che si riflettevano sull'acqua salmastra...
E' un componimento amoroso e nostalgico, che mi ero sentito di dedicare a tutti i liguri che nella prima metà del secolo scorso furono costretti a lasciare la loro regione, Genova in particolare, per trovare fortuna di là dall'oceano: Argentina, Brasile, Stati Uniti...
...E anche a quei Genovesi che, durante le giornate del G8 di quel fatidico 2001, hanno saputo dare accoglienza e aiuto ai manifestanti pacifici che venivano selvaggiamente picchiati e violentati dalle Forze del Disordine Organizzato, mentre i facinorosi Black Block potevano indisturbati saccheggiare la città, davanti alle braccia conserte dei tutori dell'ordine...
Lì, in quella città che mi ha dato i natali ci sono le mie radici, il ricordo della mia famiglia, la presenza di un padre ingombrante che era conosciuto da tutti come "il Comandante" della Nave scuola Garaventa, una nave ove ragazzi di diversi ceti sociali erano costretti ad approdare per evitare il carcere minorile, o perché 'viziati' in famiglie troppo abbienti, evitassero di prendere una brutta china...
Insomma chi conosce Genova, si potrà ritrovare nelle descrizioni a mo' di versi che, come immagini repentine, hanno impresso la mente e il cuore di chi scrive.
Una condivisione quindi, e un invito a tutti gli amici lettori a sfogliare alcuni dei componimenti poetici che nel corso degli anni ho voluto raccogliere in un volume, facilmente acquistabile in rete, all'indirizzo sotto indicato.
Buona lettura, dunque.
La poesia, come la musica, deve essere ascoltata e, chi la legge, deve saper far trasparire i moti dell'anima e il linguaggio delle emozioni, proprio come quando si suona uno strumento musicale...
Dinaweh
Janua Picta
Un pugno nello stomaco
sei per me
tu che ti affastelli di case
aggrappate alla roccia
ti volti abituata come sei
dalla parte del vento
che ti sferza,
ti asciuga gli intonaci dipinti,
sbattere di persiane verdi e bianche
si sente ancora il precipitare di pioggia che scroscia
e arrovelli i tuoi giorni
piovosi d’inverno e afosi d’estate
come un viandante silenzioso e diffidente
nascondi il tuo volto.
Un giorno lontano brillavano
di colori i tuoi palazzi
e di oro erano rivestiti
i saloni patrizi
di mercanti nobilitati,
fattisi dal borgo
di faticosi negozi
quando oltremare i tuoi figli
passavano sotto salsedine e sole
di mari lontani
giornate e mesi
senza tornare
rimangono le antiche
vestigia
con nicchie di madonne
rubate
tra vicoli scuri,
acciottolati di rosso
si abbracciano al mare
e lo temono tuttavia,
come si teme il forestiero
che può entrare tra le mura
e rubare i preziosi forzieri,
e gli arazzi di seta indiana
eppure da sempre
hai accolto il pellegrino
e il contrabbandiere -
insieme al turco
e all’ebreo - trovavano
rifugio
mentre si partiva per terrasanta
allestivi bastimenti
dal tuo utero lambito di acqua salata
sputavi legni pronti per la pugna
dal Galata svanivano
pensieri di pace
e valorosi e violenti
facinorosi crociati
si battevano di là dal mare,
da te partendo,
per portare a casa qualcosa
nel nome del Nazareno.
Oggi sei ancora lì, affacciata
sullo stesso specchio d’acqua salmastra,
sembri una regina stanca
Superba ti chiamarono
quando la tua effigie
di tela bianca, crociata di rosso
spadroneggiava sul mare Tirreno,
mentre il faro
scandisce ancora il tempo delle notti di terzo millennio
fendendo con il suo raggio luminoso
il buio
non più per la salute dei naviganti
ma per l’amore dei suoi abitanti,
abitanti di mare più che di terra,
spaesati comunque
tra il frastuono di auto filanti
su nastri d’asfalto sospesi
tra il porto e le case
e il rotare metallico
di treni lenti e affollati
che come edera
si attaccano tra il mare
e le ciminiere
di fabbriche dismesse
è allora che il mio sguardo,
come a cercar conforto e vigore
si volge
ai tuoi muri a secco
culminanti di “cocci aguzzi di bottiglia”
a incorniciare ancora
le cröze ostinate
che si arrampicano in
salita
sulle cime dei tuoi colli spuntati
e le macchie di capperi in verticale
rivestono le pietre antiche
con il loro candido fiore.
Poi sul mare ti fai prendere,
ti lasci andare
come una bella donna
mostri il meglio di te:
da su, sulla Spianata,
si apre il golfo alla vista
come le gambe fa la ragazza
col proprio uomo
quando cade in amore.
Spumano le onde
negl’inverni di maestrale,
quando gabbiani famelici
ti spettinano i capelli
sfiorando i campanili
e le torri
mentre i nobili palazzi
bianchi di marmo fasciati
si sono rifatti il look
da quando i Grandi
sono venuti a violentare i tuoi spazi
a chiudere le tue strade
con reti e cancelli
con la loro arroganza
e i loro sbirri,
alcuni vestiti di nero
hanno messo a ferro e fuoco
le tue strade
mentre una folla di giovani
di anziani, di ribelli
faceva sentire la sua voce
i tuoi abitanti li salvavano
dai bastoni e dalle botte,
aprendo loro i portoni
nascondendoli per le scale
e gli appartamenti,
suggellando un patto antico
di amicizia tra i popoli.
Gente di mare
poco avvezza ai sorrisi
scorbutica e mugugnona
non dimentica del lavoro e della fatica,
poco amante della retorica e delle chiacchere
si scioglie però all’onestà
della parola data.
A me cosa hai lasciato?
Nulla o poco meno
Chi ti è figlio
spesso l’hai dimenticato.
Del resto già molte volte facesti così
in passato
quando era necessario
prendere il largo dalla miseria
salutandoti a denti stretti
tanti dei tuoi salpavano lontano
di notte per non sbagliare,
per non farsi incontrare,
per dar meno pena agli occhi
dei cari rimasti…
Sono dovuto emigrare anch’io
di qua dal mare
in cerca di fortune
che ancora faccio fatica a trovare
lontano da te
lontano dal cuore,
a udire altri suoni
a mirare altri colori
altre lingue e odori.
Non so se mi manchi,
non so se da te tornerei.
Conservo il ricordo nelle mie ossa
e negli occhi rivedo ogni stazione
che a te mi ha legato
Boccadasse rimane in me attaccata
come il turchese incastonato
nell’argento che l’accoglie.
La poesia Janua Picta è tratta da: Luca Peirano, Incanto e disincanto. Versi poetici di luoghi comuni e metafisici, Gruppo editoriale L'Espresso, www.ilmiolibro.it.
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