lunedì 11 agosto 2014

I passi percorsi in nessun luogo (settimo incontro)


 I passi percorsi 


in nessun luogo

Vi ricordate?
L'ultimo incontro con il nostro personaggio misterioso risale a marzo. Lui è un 
amico di Torino, che svolge nella vita un lavoro umile e che si sente al servizio dei
fratelli, attraverso le pratiche di meditazione,
precedute da queste bellissime riflessioni a cuore aperto,
frutto di un cammino interiore intenso e di una Maestria acquisita
con determinazione e caparbietà. 

Perché questo tornare a noi stessi? Perché è importante ricordare chi siamo,
al di là di tutte le identificazioni e le variabili che il quotidiano
ci pone costantemente davanti? 
Perché questo richiamo alla meditazione, 
al cercare dentro?
Perché, come già avevo avuto occasione di condividere con voi in un altro post (14 luglio 2014), parlandovi del lavoro di Gaetano Pedullà,  
abbiamo la necessità di comprendere che è soltanto rimanendo nella Presenza,
in noi stessi, che potremo davvero modificare il mondo che ci sta attorno,
migliorando giorno per giorno le nostre relazioni,
e soprattutto la nostra relazione con noi stessi. 
La pratica della meditazione deve diventare per chiunque voglia intraprendere
un cammino di consapevolezza
un bisogno, come l'aria che respira, come l'acqua che disseta quando ha sete.
Entrare poco a poco, all'inizio con sforzo, per poi  uscire, per poi rientrare,
fino a quando la meditazione sarà un tutt'uno con la nostra vita, sarà la nostra nuova vita,
diventando così necessaria, da non poter più fare a meno
di "rimanere dentro", ogni attimo, ogni respiro, sempre.  

Non col pensiero, né con la ragione potremo conoscere il Dio che siamo,
ma soltanto con un atto di Presenza costante, soltanto con la comprensione del cuore.
Così quello che ci serve si presenterà a noi, senza sforzo,
senza aspettative, senza che alcun desiderio della mente
offuschi continuamente l'istanza primordiale di ogni spirito incarnato:
tornare ad essere Uno col Padre,
anche svolgendo una vita "normale".

Perché il Cristo non è stato compreso? Perché il suo linguaggio era del cuore
e gli uomini non amano che qualcuno tolga loro le maschere che portano 
con tanta audacia e caparbietà. 
Essere nel cuore, esserci sempre, sempre di più, questo è il segreto per entrare nel Regno!
"Il Regno di Dio è dentro di voi", non voleva altro che dire questo!
Nessuna chiesa, nessuna istituzione religiosa è, né sarà mai nel cuore. Essa deve proteggere se stessa, deve mantenere il potere, deve poter coltivare seguaci fedeli e sottomessi.
Ricordate a proposito le bellissime pagine di Dostoevskij tratte dal romanzo "I fratelli Karamazov", quelle del 'Grande Inquisitore'? 

Anche quello che leggerete qui di seguito potrà accendere in voi
nuove comprensioni. 
La scena di questo mondo è una delle tante e, toccherà tornare,
fino a che non saremo in grado di abbandonarci alla potente forza dell'amore.
L'amore infatti tutto vince, tutto supera, tutto travolge, anche le miserie umane più distruttive, l'odio e la violenza.
Buona lettura.
Dinaweh      
  


Torino, martedì, 2 aprile 2002 

Nelle Enneadi di Plotino, in un passo del VI libro, si legge: 
"Le difficoltà ci si presentano soprattutto perché la conoscenza di Dio non si ottiene per mezzo della scienza, né per mezzo del pensiero, come per gli altri oggetti dell'intelligenza, ma per mezzo di una presenza che vale più della scienza. L'anima, quando acquista la conoscenza di qualcosa si allontana dalla propria unità e non resta completamente una. La scienza, infatti, è un processo discorsivo e codesto processo è molteplicità, perciò, una volta caduta nel numero e nella molteplicità essa perde l'Uno". 
Significa che bisogna uscire dal molteplice per tornare all'Uno, perché noi siamo Uno col tutto. E come dice bene Plotino: "per mezzo di una presenza che vale più della scienza", la presenza, l'attenzione a sé, è ciò che vogliono tutte le tradizioni religiose. Il concetto di presenza è universale e quando viene meno ci troviamo immersi nel molteplice. Se sei presente, l'attenzione è rivolta verso te e più sei presente e meno l'attenzione va a cogliere pensieri. La presenza richiama automaticamente l'attenzione a te stesso. La meditazione è semplice, ma semplice vuol dire uno: l'atto di essere attento a sé. E la massima semplicità è la presenza: io, uno. Devo arrivare all'Uno e con l'atto di presenza, l'attenzione si rivolge a me stesso: io sono. Penso e mi immedesimo nell'Uno fino a che divento Uno.

Per vivere nel molteplice ho a disposizione una varietà elevata di maschere che posso assumere nelle diverse circostanze della vita, ma di volto ne ho uno solo. Io sono l'intelletto, e questo vale per tutti. Nel bagaglio che ci portiamo dietro ci sono ricordi, emozioni, pensieri, ma io sono uno. Eckhart afferma che l'intelletto è il tempio di Dio, e nel Vangelo: il Regno dei Cieli è dentro di voi, ma 'voi' in quanto intelletto, non certo emozioni, cultura o memoria. Perciò, più uno è presente a se stesso e meglio si realizza, fino a raggiungere una presenza totale. E' chiaro che una presenza totale ha bisogno dii tempo e di un continuo esercizio. 

Nel nostro mondo, il mondo occidentale, la presenza a sé è un concetto che si è perso, cui non si attribuisce grande importanza: c'è la scienza, lo sviluppo tecnologico, l'organizzazione sociale e politica, ma non il conosci te stesso. E' inutile affrontare tutte le contingenze che ci pone la vita se non conosciamo noi stessi. E' come esserci persi. Per questa ragione è doverosa la conversione, tanto se non sarà in questa vita sarà in un'altra, ma ci toccherà affrontare il problema, sperando che rimandando non aumentino le difficoltà. Dagli scritti di un sufi: "se tu ami una cosa ne sei lo schiavo. Ora, Egli non ama che tu sia lo schiavo di altri che di Lui". In altre parole, tutta la tua mente deve essere orientata a Dio.
"Il santo non giungerà a Dio finché non si libera dalla brama di giungere a Dio". Il nostro desiderio non è significativo, è solo pensiero e bisogna liberarci anche del pensiero di giungere a Dio. L'atto di presenza non chiede qualcosa, ma solo di essere. Il desiderio, comunque sia orientato, è solo la radice della sofferenza. Di tutti i desideri lasciate ogni speranza o voi che entrate, dice Dante, perché anche la speranza di riuscire è una creazione mentale, un pensiero. Finché la mente è duale, io e il pensiero, non ci può essere la presenza di Dio. Devo essere attento a me stesso, e più sono attento, più divento Uno.  Il meditante non deve essere attaccato né a cose materiali, né spirituali, deve sapere che il desiderio fa parte del volere umano.

E' scritto che Ulisse passa fra Scilla e Cariddi, passa in mezzo a due pericoli e va oltre. e questo può avvenire solo lasciando il pensiero. Lasci il pensiero quando sei presente a te stesso e più sei presente minori sono gli attaccamenti. Spesso compiamo un'azione e col pensiero siamo da un'altra parte, al punto che non ci rendiamo conto, a volte, di cosa stiamo facendo. Questo non è essere presenti. Se ti vedi camminare compi l'atto di presenza che tu sei lì. Richiamare la presenza a se stessi è valido anche quando siamo afflitti da preoccupazioni, è creare un distacco e, forse, diventa più facile trovare una soluzione con la mente più libera. Più sono presente e meno mi tocca anche la preoccupazione più opprimente. Se non sei presente, sei coinvolto e travolto. La presenza vera è una categoria dello spirito. Non pensa di essere presenti, si è. I richiami di presenza possono essere fatti in qualsiasi momento, qualunque sia l'attività che si svolga. Richiami di presenza che, se abituali, facilitano il mantenimento della presenza anche in meditazione. La presenza è l'attimo in cui veramente si vive, senza distrazione alcuna. Abitualmente, qualunque cosa si faccia, siamo sempre da un'altra parte, è come se non esistessimo, è uccidere la Vita. 

I problemi dell'uomo esistono perché c'è il pensiero, ma se riesci ad annullare il pensiero hai azzerato i problemi. E' essere dis-pensato. Nella vita di tutti i giorni, affrontare i problemi col ragionamento è necessario e utile, ma cercare di conoscere Dio col pensiero è impossibile. Una mente duale, io e il pensiero, non potrà mai conoscere l'Uno. E' il glorifica te stesso. Il Padre rappresenta la 'potenza', il Figlio la 'sapienza' e lo spirito di santità 'l'essere'. Il Figlio insegna all'intelletto, il Padre come fare, ma il fare dipende dall'intelletto, la 'potenza'. e' l'intelletto che decide di essere presente a se stesso. Il Figlio, il guru interno, ha insegnato all'intelletto come fare. 
Nella meditazione di cerca la presenza, l'annullamento di tutti i pensieri, ma non si può essere perennemente in meditazione.Quando si torna al quotidiano è normale riprendere i propri attaccamenti, affetti e impegni.
E' importante che l'uomo, col proprio essere nel mondo, sia più presente di quanto altrimenti sarebbe. ecco perché i richiami alla presenza durante la giornata, qualunque cosa si faccia, sono indispensabili. Tutto quello che facciamo ha bisogno di attenzione, noi per primi, e questo per evitare di passare una vita a fare altro, dimenticandoci di noi stessi. Siamo nati per questo per evitare di passare una vita a fare altro, dimenticandoci di noi stessi. Siamo nati per conoscerci. Bisogna dare un tempo a tutte le cose che ci riguardano: un'ora per se stessi sulle ventiquattro è cosa giusta. abbiamo bisogno di conoscerci ed è un bisogno imperativo, e noi, erroneamente, rispondiamo a questo bisogno col possesso di più cose. Da qui nasce quel senso di incompletezza, frustrante, che ci portiamo dietro, spesso per tutta l a vita. Manchiamo a noi stessi. Il bisogno spirituale non può essere tacitato col possesso di cose materiali, per quanto l'uomo possegga non gli basta mai, senza risolvere nulla. E' solo la conoscenza di sé, cioè di Dio, che risolve il problema, che toglie il senso della mancanza di qualcosa che ci portiamo dietro. Il tempo che dedichiamo a coltivare la presenza in noi stessi non solo ci dà una maggiore attenzione per tutte le altre nostre azioni quotidiane, ma ci mette nella condizione di correre meno, sentiamo meno il bisogno di fare o di possedere. La vita diventa meno logorante, è un vivere più tranquillo, più sereno. Non dimenticate che siamo noi a dare un valore alle cose che ci circondano, ma se siamo in grado di dare un valore è perché il valore è in noi. E' possibile che poi ci si attacchi al nostro estimo, ma siamo noi a valorizzare le cose. Il valore dei valori lo possiamo trovare solo in noi. Una persona, infatti, è depressa quando non riesce più ad attribuire valori alle cose che la coinvolgono, ha il problema irrisolto di dare un senso alla propria vita, perciò ritiene tutto vano. E' un modo doloroso di vivere la vita. La caduta dei valori priva l'esistenza di ogni significato. Chi è attratto dai richiami del mondo non è ancora pronto per la via spirituale, ma chi vive la caduta dei valori esistenziali, chi sente tutto vano è pronto alla conversione: peccato che non sappia cosa o come fare. Il passo del Vangelo dice: "venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi" si riferisce proprio a chi vive la crisi esistenziale, in quanto il legame dell'attaccamento alle cose del mondo è meno forte e devono cercare se stessi. Hanno solo bisogno di conoscere la via da intraprendere.

Chi si uccide, invece, conosce la disperazione di chi non conosce la via o, conoscendola, non ha la capacità di porla in pratica. Il depresso vive uno stato di sofferenza interiore più doloroso del dolore fisico. Per trovare il filo d'Arianna e uscire dal labirinto, spesso, non sa cosa fare, ma ci vogliono anche le altre virtù: la grazia di capire, per esempio. Il suicidio è sempre l'espressione di una sofferenza non sopportabile, senza speranza. e' pura disperazione per l'incapacità di dare una risposta esaustiva al senso della vita. Non è certo dovuto alla carenza di beni materiali! E' un fatto: più aumenta il benessere materiale e più siamo disperati. Da troppo tempo è assente il vero insegnamento spirituale. I testi sacri sono lo strumento per dare una risposta ai bisogni spirituali, ma ci vuole chi li sappia o li voglia interpretare correttamente. L'uomo è nato per credere in Dio, non a un libro.
Ma allora è più colpevole il disperato che non ha conosciuto la via o chi conosce la via e non la pratica?

Purtroppo quelli che conoscono la via sono mosche bianche, ma di fatto hanno usato il libro sacro per avere potere sull'uomo. E questo è grave. Sembrano dire: "io ho la conoscenza del libro, sono il mediatore col divino, e voi le pecore". Ma chi esercita il potere sugli altri non conosce la via. Ha il potere e solo quello. Una mente illuminata non può vivere in quelle strutture. Ricordate l'esperienza di Celestino V, frate che viveva in odore di santità, eletto papa è rimasto in carica il tempo di capire come funzionava la struttura e si è dimesso. Nei secoli passati, anche conoscendo la via, dovevi stare nella gerarchia della chiesa, se non volevi essere bruciato al rogo sulla pubblica piazza. San Francesco di Assisi aveva la conoscenza, ma per creare il suo ordine ha avuto bisogno della bolla pontificia e il vero insegnamento era dato ai pochi in grado di capire senza sovvertire l'ordine sociale. La struttura ecclesiale prepara il gregge e non può permettere contestazioni all'ordine precostituito. Altro che, per umiltà, lavare i piedi agli altri, bisogna parlare di lavaggio del cervello! Ed è così in tutte le confessioni religiose che si reggono sul potere temporale. Pensate solo a quanti sufi ha bruciato l'islam. solo l'induismo ha permesso una maggiore libertà di ricerca. Il buddhismo, poi, non ha mai perseguitato nessuno, non fosse altro perché imposta la ricerca spirituale a livello filosofico. La sua dottrina è impostata sulla liberazione dal dolore, sulla ricerca delle cause della sofferenza.  





   



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