LA VITA CONSISTE
NEL MORIRE
Traggo lo spunto delle riflessioni
che vorrei condividere con voi
da una lettura a me molto cara,
che vorrei condividere con voi
da una lettura a me molto cara,
che ogni tanto riprendo in mano e che riesce sempre
a donarmi nuove comprensioni;
...come sempre accade dopo aver fatto
un pezzo di strada in più, durante il lento scorrere
della vita...
Le esperienze che si accumulano, infatti,
diventano i mattoni della nostra 'casa interiore',
quella di cui solo noi conosciamo il progetto,
progetto mutabile del resto, come lo scorrere
inesorabile del tempo che, in sintonia con il nostro
"operare nel mondo", costruisce e modella con fogge
sempre nuove quel costrutto iniziale,
pensato a priori, come se non potesse essere toccato
dallo spessore di nuove convinzioni o interpretazioni
dell'esistente.
In realtà ci si accorge come quello stesso mondo,
di cui noi stessi siamo gli architetti, sia - prima di tutto - un mondo interno, fatto di memorie, esperienze,
percezioni delle stesse esperienze;
i colori e la struttura di quei mattoni infatti varia
a seconda dei percorsi
e dello stupore che continuiamo ad avere nei confronti
della vita, nonostante spesso quello che "ci tocca di vivere"
non vorremmo viverlo, desidereremmo persino
misconoscerlo, allontanarlo, non lo accettiamo!
Eppure ogni mattone della 'nostra casa'
è il frutto e la testimonianza vivida di ciò che
siamo voluti diventare, prima di tutto davanti ai nostri stessi occhi.
'La vita consiste nel morire', si dice nel saggio di Arnaud Desjardins. Sembra un paradosso, eppure, ci ricorda l'autore e il maestro ad un tempo, è proprio così. Non c'è vita senza morte e la stessa vita è una continua morte, al di fuori della quale
non ci sarebbe movimento, ma eterna fissità,
l'antitesi della vita stessa, la morte che non dà frutto, la morte eterna!
Noi non siamo mai uguali a noi stessi, poiché ogni movimento, ogni medesimo pensiero cambia in noi
le coordinate che un momento prima ci spingevano in quella direzione piuttosto che nell'altra;
perché le variabili dell'esistenza producono necessariamente in noi
continui mutamenti, da una condizione ad un'altra,
costantemente, anche se non ce ne accorgiamo, non ne siamo coscienti.
Gli stessi 'ruoli sociali' che nel corso dell'esistenza assumiamo
non sono mai uguali a se stessi; prima siamo figli,
poi diveniamo padri e madri, poi mariti e mogli; a volte cessiamo di essere i mariti e le mogli di qualcuno,
lo scorrere degli anni ci può far assumere il ruolo di nonni,
prima siamo dipendenti di un' azienda,
poi ne possiamo diventare i manager, dirigenti, oppure
da insegnanti possiamo essere promossi
al ruolo di presidi, di direttori.
Infine cessiamo anche di essere dirigenti e direttori...
Che cosa rimane di noi? Sicuramente la parte
immutabile, l'essere immutabile che siamo,
ma la vita ci spinge in ogni caso nella relatività
dei giorni a mutare sempre forma, aspetto, atteggiamenti,
emozioni... La perdita di un figlio, essente drammatica di per sé, in realtà è la morte di una madre e di un padre...
La fine di una relazione d'amore assume agli occhi
dell'amato l'aspetto e la ferocia del tradimento ed è peggio della stessa morte, finché non subentra l'accettazione profonda e il perdono. Un perdono amaro, prima di tutto di se stessi, poi dell'altro da cui ci si sente separati e traditi.
Nulla è mai uguale a se stesso. In questo senso l'autore
ci conduce ad una riflessione profonda sul senso
stesso della vita che, per sua natura, è movimento
costante e ininterrotto.
A volte siamo spaventati da questo
e la mente ci induce a credere che non sia così; essa si
abbarbica con tutte le sue forze nel convincerci del contrario. E' proprio questa disposizione della mente
a procuraci dolore e disaffezione alla vita, quand'essa si muove dentro di noi e smuove convincimenti, abitudini,
senza darci tregua, senza chiederci il permesso!
Eppure - ma è un'altro tema - siamo noi, senza esserne per lo più coscienti, a smuovere le carte, a tirarci fuori
dall'immobilità, poiché il nostro spirito sa,
la nostra anima ci conduce sempre verso l'ignoto
a raggiungere lo scopo, a prefissarsi caparbiamente la méta
per la quale siamo scesi e venuti al mondo, in questa
dimensione.
Vi lascio dunque alle bellissime parole
in forma di libro, ma che consistono nelle relazioni
tenute da Arnaud Desjardins nella sua casa-comunità
di Parigi, parole le sue, che hanno a lungo attratto uomini e donne,
provenienti da tutte le parti d'Europa e del resto del mondo.
Anche in questo caso divideremo il testo citato in diverse parti, sperando così di far cosa gradita ai nostri cari lettori.
Dinaweh
Se il Sé è inalterabile, solo il Sé è inalterabile.
Non c'è cammino spirituale o sadhana degna di questo nome che non richieda coraggio e determinazione per attraversare certe prove o certe crisi. Lasciarvi sperare in giorni sempre più felici solo perché vi siete impegnati su un cammino, sarebbe mentirvi.
Ciò nonostante la promessa ultima (bisogna ricordarlo ogni volta) è di totale felicità, di assoluta felicità.
Leggendo le testimonianze indù, buddhiste, sufi, troverete qua e là delle frasi inconsuete, sorprendenti, forse sconvolgenti, delle verità che non avrete molta voglia di ascoltare, e vi chiederete se sono vere e se davvero potete accettarle. Preferiremmo che il cammino ci parlasse unicamente di pace, di amore, di serenità e ci promettesse: "Vedrete che tutto vi andrà di bene in meglio, giorno per giorno, tutti i vostri sogni saranno realizzati, tutte le vostre pene spariranno".
Fra le verità di cui bisogna prendere piena coscienza, ce n'è una su cui vorrei insistere, ed è questa:
la vita consiste nel morire.
Questo fatto merita di essere considerato con molta attenzione, finché non ne sarete convinti e non smetterete di tentare di negare la verità. Potete però oltrepassare questo continuo divenire e sbucare dall'altro lato, nella luce, nell'immortalità, nella vita eterna. Questa affermazione di morte è un modo di affermare il cambiamento. Se c'è il cambiamento, c'è la morte di una forma e l'apparizione di una forma nuova. Un cambiamento che è senza fine. Molti termini sanscriti, che vengono tradotti con 'il mondo', significano più precisamente 'cambiamento permanente', 'spostamento continuo', come un fiume che non cessi mai di scorrere, Potrete constatarlo dovunque intorno a voi, purché non vi nascondiate, purché non vi fermiate alla prima emozione negativa dicendo "questo mi fa male". Forse per il momento quella cosa davvero vi fa male. Ma le cose cambiano. Non ritroveremo più i paesaggi che abbiamo amato da bambini, le stradine dove correvamo in bicicletta sono diventate grandi arterie fra immensi palazzi. E il cambiamento è sempre più accelerato, oggi più ancora di un tempo.
Una pianta che ci piace particolarmente gela, muore e sparisce. E poi, e poi... lo sapete bene, è così per ogni cosa. Ciò che abbiamo amato, ciò a cui eravamo attaccati, la vita ce lo ha tolto. Non c'è apparizione senza sparizione, non c'è unione senza separazione, non c'è nascita senza morte, questo è l'insegnamento comune a tutte le grandi tradizioni, e che si può riassumere con 'non permanenza' o ' impermanenza'. Che fine hanno fatto il neonato, il ragazzino, la bambina? Si dice di un adolescente più o meno maleducato: "Ah, era così buono da piccolo!". Forse era davvero buono, ma il fatto è che non abbiamo nessuna possibilità di fermare lo sviluppo fisico e affettivo di un bambino di un anno, mantenendolo sempre uguale per l'eternità. Ma questa impossibilità di fermare il tempo, il 'mentale' (questo meccanismo così errato, così menzognero del nostro psichismo, del nostro cuore, del nostro intelletto) la rifiuta. E più il mentale rifiuta, più si rafforza. Volendo una definizione semplice del mentale (ne parlo senza essere sicuro che abbiate sempre ben capito di che si tratta), potrei dire che, in breve, il mentale si riassume nel rifiuto. Non esiste che grazie al rifiuto, al rifiuto del reale così come è, al diniego della realtà. Sussiste solo grazie al 'no' a ciò che è. Il 'no' a che cosa? Prima di tutto al cambiamento: "Questo non è quello che mi aspettavo". Il mentale nasce con il primo rifiuto al cambiamento. Ora, il cambiamento equivale alla morte di una forma e alla nascita di un'altra forma.
La legge della realtà relativa è il cambiamento. Solo la Realtà assoluta non cambia, solo la Realtà assoluta può essere considerata Vita eterna. Ciò che chiamiamo vita, quella di cui abbiamo normalmente esperienza, è un processo permanente di distruzione e di ri-creazione, di morti e di nascite simultanee.
L'origine del mentale è molto semplice. La sua formazione comincia fisicamente col rifiuto di alcune sensazioni, per lo più fin dalla nascita. La nascita del bambino rappresenta la morte del feto. Il feto viveva collegato a un cordone ombelicale, il bambino vive senza cordone ombelicale. Il feto vive senza cordone ombelicale. Il feto viveva in un ambiente riparato dalle luci violente, dai suoni troppo forti e dagli urti, mentre il bambino vive esposto alle aggressioni, segnato da quello che comunemente si chiama il trauma della nascita. Venire al mondo consiste nel morire. Morire a cosa? Allo stato di feto, per nascere allo stato di poppante, di neonato. E già questa morte e questa nascita sono rifiutate, perché se è vero che da un lato il bambino vuole nascere, dall'altro il suo venire al mondo è una prova più o meno dolorosa secondo che avvenga più o meno facilmente. Partendo dal concetto di 'difficoltà di nascere' Frédéric Leboyer ha spostato tutta la sua ricerca in psicologia pediatrica dal parto all'accoglimento del neonato. Se la nascita è stata facile, se l'ostetrica, la levatrice o le infermiere hanno usato mille attenzioni, il rifiuto è meno forte. Tuttavia ci sarà in ogni caso, da parte del neonato, il rifiuto di certe sensazioni. Per esempio il rifiuto di un particolare comportamento della madre, se questa ritira il seno e dà un colpetto al piccolo che la ha leggermente morsa succhiando. Dunque il mentale comincia col rifiuto di sensazioni percepite come dolorose o semplicemente sgradevoli. In seguito, memore delle sensazioni precedenti, capace di fare paragoni fra esse, e provando apprensione per il futuro, il mentale diventa più complesso. Compare l'aspetto emozione, poi l'aspetto propriamente concettuale sotto forma di visione: "Prendo coscienza di ciò che è".Come ben saprete, queste non sono di certo delle teorie rivoluzionarie. Ma resta l'asserzione: il cambiamento è una morte. Ciò che era non è più. E finché siamo a livello di coscienza ordinaria questa è una cosa che spesso ci fa male. Ci attacchiamo, vorremmo che ciò che è gradevole durasse. E se lo stato di feto è stato gradevole, ora il neonato non capisce perché quell'esperienza non è durata, perché ha dovuto uscire nel freddo, nella luce, nel rumore, perché ha dovuto essere manipolato dal medico e dalle infermiere, lavato, pesato, vestito.
Tutti conoscete il grido del cuore dell'essere umano, il grido del cuore del mentale: perché questo non dura? Perché non è durato? Stavo così bene, era così bello, ero così felice, perché è già finito?
[...]
Il cambiamento è la legge e nessuno di voi potrà evitare di collaborare e di partecipare a questa legge. e neppure potrete evitare di essere gli agenti del cambiamento. Shiva il Distruttore si manifesterà attraverso voi. Ciò a cui siete attaccati morirà, ma anche voi morirete. E' una cosa che merita di essere considerata attentamente. La vostra vita consiste nel morire. Voi non cessate di morire, che lo vogliate o no. Moriamo a una condizione per nascere a un'altra condizione e, nell'istante stesso moriamo a questo nuovo stato per nascere a un altro stato ancora
Vi dirò di più: un essere umano è vivente soltanto se è ancora suscettibile di morte e di rinascita. "Se il grano non muore rimane da solo, ma se muore fruttifica in abbondanza", dice Gesù nel Vangelo di Giovanni. Se fate bollire per venti minuti un seme di grano sarà davvero morto perché non può più morire. Anche se lo pianterete nella terra migliore, lo innaffierete, lo concimerete, non rinascerà mai più sotto dorma di spiga. Lo stesso è per voi, se rifiutate il cambiamento. Con tutto il cuore, quindi, scegliete la morte, dunque la nascita, dunque la vita.
A volte questa morte e questa nascita le desiderate. Un celibe che desidera sposarsi, desidera morire allo stato di celibe per nascere a quello di uomo sposato. Ma più spesso questa morte a una condizione in cui siete per nascere a un'altra condizione non la desiderate, anzi vi fa paura, perché in passato morire a una condizione per nascere a un'altra vi ha creato dolore, e quindi l'avete rifiutata.
allora, ritornate a voi stessi, ritornate all'origine. Da un certo punto di vista il neonato, alla nascita, rifiuta l'esterno che lo aggredisce, ma ha anche un rifiuto interiore: "Io rifiuto di non essere più quello che sono stato", cioè un feto. "Io rifiuto di essere ora un neonato". Nello stesso tempo, poiché una legge lo esige, è necessario che il feto dopo nove mesi lasci il ventre materno, che a quel punto non sarebbe più una protezione ma diventerebbe una tomba. Nello stesso modo siete spinti inesorabilmente a crescere, spinti a invecchiare, dando luogo alla manifestazione più evidente dell'invecchiamento, cioè la trasformazione del neonato in bambino, del bambino in adolescente, dell'adolescente in ragazzo o ragazza, dalla ragazza alla donna nella sua pienezza, e poi appaiono le rughe, la pelle che avvizzisce, i capelli bianchi, l'invecchiamento fisico e per certi versi anche quello psicologico. A sessant'anni non si provano le stesse passioni, gli stessi entusiasmi dei vent'anni.
Osservate questo incessante rinnovamento ponendo un'attenzione sempre più sottile. Lo vedrete ben presto nei suoi aspetti più evidenti, senza bisogno di lenti o microscopi: "Non sono più quello che ero, non sono più quello che sono stato. sto forse rimpiangendo il passato? Ho forse nostalgia della fissità?" Ma la fissità non esiste da nessuna parte, se non al centro stesso della vostra coscienza, del vostro essere. Si presuppone che lo stato di vigilanza, la 'posizione di testimone', la visione del cambiamento, rimanga identica, permanente, immutabile. Ma l'oggetto della visione si rivela tutt'altro che permanente, tutt'altro che immutabile. Non esiste fissità. Come dicono gli indù, l'universo si esprime in un festival di novità.
Come vi situate voi nel cuore di questa verità? L'osservazione mostra che una delle caratteristiche del mentale (o, se preferite, dell'errore fondamentale) risiede nell'impostura che vorrebbe affermare la fissità: "Io sono e non cambio". E' falso. E' un'autentica impostura. Il mentale è un bugiardo. Vuole cristallizzare la vita in modo illusorio. La tragedia delle vite vissute nel sonno e nella sofferenza (a volte a una sofferenza atroce) si spiega attraverso il conflitto tra il movimento e la pretesa di fissità, il conflitto tra una morte incessante e il rifiuto di questa morte: "Io sono immutabile". A livello ultimo, sì, ma certo non a livello ordinario delle pretese dell'ego e del mentale. Ora, da molto tempo siete come gli altri esseri umani, quelli che non hanno mai sentito parlare di Ramana Maharshi, dei sufi, o del tantrayana.
Agite ancora secondo l'indole che avete assunto dopo la nascita, entrando in questa inevitabile sofferenza. "Non posso cambiare. Non cambio, dono un'entità fissa chiamata...!", e qui ognuno metta il proprio nome.
Non è vero. Dico decisamente che non è vero. Purtroppo la coscienza reale si identifica continuamente con una forma destinata a sparire. Se cercate la fissità in questa identificazione, siete destinati a soffrire. Consideratela attraverso approcci diversi: l'invecchiamento non salta agli occhi da un istante all'altro. D'altra parte possiamo invece constatare che certi stati fisici si modificano: un mattino possiamo svegliarci anchilosati, appesantiti, con un certo malessere e ci chiediamo se sia il caso di prendere un'aspirina. Stavamo tanto bene dopo le vacanze, e solo un mese dopo fatichiamo a mettere in moto la macchina. C'è stato un cambiamento, dunque c'è stata una morte. Dov'è finito l'uomo abbronzato, allegro e atletico di un mese fa? Basta che il rientro sia stato difficile, che ci sia qualche problema accumulato, e questo stesso uomo ha l'impressione di essere invecchiato di dieci anni in un mese.
Tutto ciò che interpretate in termini di avere, può essere interpretato in termini di essere: "Io ho questo" significa "Io sono il proprietario di questo". E se perdete una cosa che possedete, qualunque cosa, di ordine grossolano o sottile, colui che possedeva è morto. Perdere un oggetto è attinente all'avere. Ma se vi identificate col possessore dell'oggetto ( e questo oggetto può essere anche un amatissimo figlio, non solo un oggetto materiale) la perdita dell'oggetto coincide con la morte del possessore. E' parte del gioco della vita, ed è una sofferenza per il mentale che reclama la fissità. Tutto quello che possiamo interpretare in termini di avere ("ho dei bambini deliziosi, ho una moglie meravigliosa, un lavoro prestigioso, ho molti clienti come professionista"), tutto può essere interpretato in termini di essere ("Io sono stato un uomo che ha dei bambini deliziosi, ecc."). Se vi siete identificati col possessore, la perdita di un qualunque bene vi uccide, qualunque bene, l'amore di una donna che improvvisamente vi lascia per un altro, la morte di un figlio, o la situazione professionale che va male a causa di una certa congiuntura economica. Ed è una morte vera.
Trovate da soli gli esempi adatti a voi. Se considerate i grandi periodi della vostra vita, vedrete che qualcosa è davvero finito, non siete più quello che siete stato. Osservate quindi questa realtà, di secondo in secondo. In inglese c'è l'espressione has been, 'è stato', per indicare qualcosa che ha fatto il suo tempo, che è fuori moda, finito, messo in soffitta, morto e sepolto. O per indicare qualcuno che costerebbe troppo licenziare, allora gli si dà un posto senza responsabilità. Nessuno lo considera più, non ha più nessuna autorità, nessun peso, non vale neppure la pena di dirgli buongiorno in ascensore o in corridoio. Era potente, forte, sapeva come affermarsi. Adesso è cambiata la musica, largo ai giovani.
E' un'espressione crudele, ma veritiera. Siamo tutti, continuamente, degli has been, degli 'è stato'. Il neonato, il bambino, il ragazzo, lo scapolo se siamo sposati, il marito se siamo vedovi, il proprietario di questa o quella forma di avere: tutti siamo degli has been. Ogni secondo non siamo più quello che eravamo.
Solo il mentale, che ha sete di fissità e rifiuta il cambiamento, soffre. Esso tenta di ricreare ciò che è stato, di ritrovarlo, invece di partecipare con tutto il cuore al gioco della novità, di danzare con il movimento della vita. Il mentale si aggrappa ai suoi sogni, è il contrario di un danzatore. Rifiuta l'inevitabile, il dispiegarsi stesso della realtà: Brahma, Vishnu e Shiva. Interpretate la vostra vita in termini di morte di ciò che siete stati e che non siete più. Passate dal piano dell'avere al piano dell'essere. Ogni volta che pensate 'non ho più', cercate di sentire 'non sono più', perché tutto il cammino si compendia in un problema di essere.
Ciò che appare così crudele nella morte di un bambino non è la morte del bambino in se stessa; è la morte della madre. E' una cosa legata al tema del dharma: essere ciò che sono. Nel relativo, io sono una madre; ho non il dovere ma il privilegio di occuparmi del mio bambino. Se il mio bambino muore io non ho più il privilegio di potermi occupare di lui, di fare la mia parte di madre, di portare a termine il mio dharma di madre, perché il bambino è scomparso. La madre è stata uccisa. Naturalmente, se per esempio la madre fa il medico e continua a curare i malati, non è il medico in lei che è stato ucciso, ma solo la madre. Non si tratta soltanto di: "Ho perso il mio adorato bambino, il mio piccolo che mi guardava sorridendo". 'Ho perso' contiene il verbo avere. E' invece: "Sono morta in quanto madre; sono stata una madre, e non lo sono più". 'Sono', verbo essere.
Arnaud Desjardins, La via del cuore, Ubaldini editore, Roma, 2001, pp. 174-179.
Agite ancora secondo l'indole che avete assunto dopo la nascita, entrando in questa inevitabile sofferenza. "Non posso cambiare. Non cambio, dono un'entità fissa chiamata...!", e qui ognuno metta il proprio nome.
Non è vero. Dico decisamente che non è vero. Purtroppo la coscienza reale si identifica continuamente con una forma destinata a sparire. Se cercate la fissità in questa identificazione, siete destinati a soffrire. Consideratela attraverso approcci diversi: l'invecchiamento non salta agli occhi da un istante all'altro. D'altra parte possiamo invece constatare che certi stati fisici si modificano: un mattino possiamo svegliarci anchilosati, appesantiti, con un certo malessere e ci chiediamo se sia il caso di prendere un'aspirina. Stavamo tanto bene dopo le vacanze, e solo un mese dopo fatichiamo a mettere in moto la macchina. C'è stato un cambiamento, dunque c'è stata una morte. Dov'è finito l'uomo abbronzato, allegro e atletico di un mese fa? Basta che il rientro sia stato difficile, che ci sia qualche problema accumulato, e questo stesso uomo ha l'impressione di essere invecchiato di dieci anni in un mese.
Tutto ciò che interpretate in termini di avere, può essere interpretato in termini di essere: "Io ho questo" significa "Io sono il proprietario di questo". E se perdete una cosa che possedete, qualunque cosa, di ordine grossolano o sottile, colui che possedeva è morto. Perdere un oggetto è attinente all'avere. Ma se vi identificate col possessore dell'oggetto ( e questo oggetto può essere anche un amatissimo figlio, non solo un oggetto materiale) la perdita dell'oggetto coincide con la morte del possessore. E' parte del gioco della vita, ed è una sofferenza per il mentale che reclama la fissità. Tutto quello che possiamo interpretare in termini di avere ("ho dei bambini deliziosi, ho una moglie meravigliosa, un lavoro prestigioso, ho molti clienti come professionista"), tutto può essere interpretato in termini di essere ("Io sono stato un uomo che ha dei bambini deliziosi, ecc."). Se vi siete identificati col possessore, la perdita di un qualunque bene vi uccide, qualunque bene, l'amore di una donna che improvvisamente vi lascia per un altro, la morte di un figlio, o la situazione professionale che va male a causa di una certa congiuntura economica. Ed è una morte vera.
Trovate da soli gli esempi adatti a voi. Se considerate i grandi periodi della vostra vita, vedrete che qualcosa è davvero finito, non siete più quello che siete stato. Osservate quindi questa realtà, di secondo in secondo. In inglese c'è l'espressione has been, 'è stato', per indicare qualcosa che ha fatto il suo tempo, che è fuori moda, finito, messo in soffitta, morto e sepolto. O per indicare qualcuno che costerebbe troppo licenziare, allora gli si dà un posto senza responsabilità. Nessuno lo considera più, non ha più nessuna autorità, nessun peso, non vale neppure la pena di dirgli buongiorno in ascensore o in corridoio. Era potente, forte, sapeva come affermarsi. Adesso è cambiata la musica, largo ai giovani.
E' un'espressione crudele, ma veritiera. Siamo tutti, continuamente, degli has been, degli 'è stato'. Il neonato, il bambino, il ragazzo, lo scapolo se siamo sposati, il marito se siamo vedovi, il proprietario di questa o quella forma di avere: tutti siamo degli has been. Ogni secondo non siamo più quello che eravamo.
Solo il mentale, che ha sete di fissità e rifiuta il cambiamento, soffre. Esso tenta di ricreare ciò che è stato, di ritrovarlo, invece di partecipare con tutto il cuore al gioco della novità, di danzare con il movimento della vita. Il mentale si aggrappa ai suoi sogni, è il contrario di un danzatore. Rifiuta l'inevitabile, il dispiegarsi stesso della realtà: Brahma, Vishnu e Shiva. Interpretate la vostra vita in termini di morte di ciò che siete stati e che non siete più. Passate dal piano dell'avere al piano dell'essere. Ogni volta che pensate 'non ho più', cercate di sentire 'non sono più', perché tutto il cammino si compendia in un problema di essere.
Ciò che appare così crudele nella morte di un bambino non è la morte del bambino in se stessa; è la morte della madre. E' una cosa legata al tema del dharma: essere ciò che sono. Nel relativo, io sono una madre; ho non il dovere ma il privilegio di occuparmi del mio bambino. Se il mio bambino muore io non ho più il privilegio di potermi occupare di lui, di fare la mia parte di madre, di portare a termine il mio dharma di madre, perché il bambino è scomparso. La madre è stata uccisa. Naturalmente, se per esempio la madre fa il medico e continua a curare i malati, non è il medico in lei che è stato ucciso, ma solo la madre. Non si tratta soltanto di: "Ho perso il mio adorato bambino, il mio piccolo che mi guardava sorridendo". 'Ho perso' contiene il verbo avere. E' invece: "Sono morta in quanto madre; sono stata una madre, e non lo sono più". 'Sono', verbo essere.
Arnaud Desjardins, La via del cuore, Ubaldini editore, Roma, 2001, pp. 174-179.