La scoperta del Nuovo Mondo ci ha fatto dimenticare l'enorme prezzo pagato dalle popolazioni native all'arrivo dei Conquistatori bianchi, spagnoli e portoghesi che fossero, i quali, sin da subito, usarono quei territori come di loro esclusiva proprietà, trattando gli indigeni come schiavi, alla stessa stregua di animali da sfruttare o da uccidere, qualora si fossero ribellati alla loro condizione subalterna.
Non furono tanto le armi a compiere quello che fu un vero e proprio genocidio, quanto le malattie che gli Europei portarono con loro in quelle terre. Anche allora venne minata la salute dei corpi oltreché delle anime. Lo sradicamento dalle loro usanze e credenze e la forzata e brutale conversione al cattolicesimo fecero il resto.
Ci sono tanti modi per uccidere e, a volte, non è necessario annichilire il corpo fisico: si può abbattere un uomo deridendo e denigrando le sue convinzioni più profonde, disperdendo la memoria della propria ancestrale cultura, uccidendo in lui il ricordo degli Antenati, imponendogli una fede sanguinaria e violenta, costringendolo in riserve da dove non sia possibile la fuga.
Tutto questo è stato fatto; tutto questo ha prodotto delle contaminazioni e delle ferite profondissime che, nel corso dei secoli, hanno continuato a disperdere e degradare l'identità di quei popoli al punto da farla scomparire quasi del tutto.
Quale sia la situazione dell'America latina oggi, penso sia davanti agli occhi di tutti. Naturalmente, poste determinate cause, è ovvio che le conseguenze siano il frutto di quelle stesse che l'hanno provocate.
E' a questo proposito che voglio condividere con voi, cari lettori, un reportage che ho trovato molto significativo, molto più di ogni mia altra riflessione in proposito, tratto dal sito www.iltascabile.com dal titolo "Voci dell'Amazzonia", di Paolo Pecere, filosofo e letterato, scrittore di saggi, racconti e romanzi sul tema della natura e delle implicazioni che essa vincola con la vita umana sul pianeta. Il suo ultimo libro: "Il dio che danza. Viaggi, trance e trasformazioni" (2021).
In Voci dell'Amazzonia viene descritta la situazione attuale del continente sudamericano, grazie ad un viaggio che lo stesso autore ha compiuto, ove emergono tutte le contraddizioni di quella contaminazione imposta di cui si diceva sopra, ma anche delle avvisaglie di un cambiamento in positivo che sgorga come sorgente pura e immacolata da quella stessa contaminazione che vive nella carne e nel sangue la gente nativa di quelle terre, una volta mescolata suo malgrado alla cultura dominante dei colonizzatori; gente senza scrupoli che da sempre ha sfruttato e calpestato la dignità di popoli anche molto diversi tra loro, ma che sono profondamente legati alle loro radici, anche a costo di affrontare la morte. Naturalmente, come sempre accade, gli effetti collaterali di quell'invasione sono presenti ahimé nelle vite delle stesse vittime, molte delle quali si sono lasciate imbonire e corrompere dalla presenza costante di padroni implacabili, assumendo loro stessi come per osmosi, la stessa ferocia degli invasori, diventando essi stessi cinici nei confronti di chi tra loro, nonostante tutto, rimane abbarbicato e fermo ai valori ancestrali che si vorrebbero estirpare completamente.
Significativo l'incontro-scontro di queste due culture antitetiche tra loro, raccontato in un libro che due personaggi, l'antropologo Bruce Albert e lo sciamano Davi Kopenawa, hanno scritto a quattro mani: La caduta del cielo (2010).
Davi Kopenawa, sciamano della popolazione degli Yanomami, racconta attraverso se stesso, la prevaricazione dell'uomo bianco contro i suoi fratelli e le sue sorelle, ma anche il suo riscatto personale e la sua trasformazione che come un boomerang fa da volano anche per il riscatto e la trasformazione dei numerosi popoli nativi che coabitano in quei territori così vasti.
Vi lascio dunque a questo fantastico e spesso terribile viaggio nella memoria di ciò che noi, uomini bianchi, non dobbiamo dimenticare, considerandoci in qualche maniera comunque responsabili dei misfatti perpetrati dai nostri antenati, così come da noi stessi che oggi continuiamo a perpetrare ai danni di quelle popolazioni. Ciò ci serva da monito, ci faccia sentire responsabili e dunque, ci porti a rimediare nel nostro quotidiano, attraverso mille piccole azioni, anche le più semplici eppur significative, per cessare quanto più possibile di essere complici di tutte le rapine che continuano a usurpare diritti e proprietà in nome di un falso progresso e, oggi potremo aggiungere, in nome di un falso "green" dalle mani sporche di sangue innocente.
E noi, cosa possiamo fare?
Come, mi chiederete? Non dando il nostro consenso a qualsiasi tipo di sfruttamento venga esercitato ai danni di popolazioni come quelle native del Sud o del Nord America, così come a quelle del Continente africano o asiatico. Possiamo fare scelte consapevoli nei nostri acquisti alimentari, per esempio, premiando quelle realtà etiche, equo-solidali, rispettose della terra e delle persone, che qua e là sorgono numerose in ogni angolo del pianeta; non solo per ciò che riguarda gli alimenti, ma per qualsiasi manufatto proveniente da ogni regione del mondo; abbandonando la grande distribuzione e le multinazionali del crimine, che affossano, facendo morire di asfissia qualsiasi attività artigianale locale e le piccole aziende a conduzione familiare. Promuoviamo invece proprio questa tipologia di mercato, meglio se equo e solidale, costruendo un'economia parallela e alternativa a quella delle multinazionali e dei grandi gruppi di potere. Gli esempi sono molteplici di ciò che davvero ognuno di noi può fare per migliorare lo stato febbricitante del pianeta: anche da queste pagine è possibile trovare degli esempi, delle testimonianze concrete di vita, raccontate attraverso video, scritti e immagini. Provate a sfogliare le pagine virtuali di "incantodiluce" e vi troverete davvero tanti spunti di sogni realizzati o in fase di realizzazione. Al termine del post potrete trovare diversi link, per facilitare il vostro viaggio virtuale.
Buona immersione dunque nella lettura di questo viaggio che l'autore ci offre con passione, ricchezza di documentazione e amore di verità.
La striscia azzurra del Rio della Amazzoni segna il confine meridionale della Colombia per una settantina di chilometri fino a un puntino sulla mappa, la cittadina di Leticia.
Camminando per mezz'ora lungo la costa si entra in Brasile, a Tabatinga; attraversando il fiume si approda in Perù. Ci vuole un attimo a distogliere lo sguardo dal navigatore - il nome delle leggendarie guerriere, le frontiere nazionali disegnate a tavolino - avvistare un orizzonte d'acqua color caffellatte e scoprirsi totalmente spaesati.
La sera del mio arrivo a Leticia c'è un concorso di bellezza e le stradine sono piene di gente. Il tassista rinuncia ad arrivare in ostello e mi fa scendere a un incrocio allagato. "E' la festa più grande dell'anno", spiega. "Di solito qui non c'è nessuno. Ma oggi vengono le famiglie dai dintorni, da oltre confine". Mi affretto verso i fumi di cucina che segnalano il parco Orellana. Di fronte al palco hanno montato gradinate di legno. Sembra una festa rionale affollata: il presentatore, in camicia a collo alto tesa sulla pancia, chiama sul palco diversi notabili locali per i saluti, introduce spettacoli di danza e musica. Sfilano a turno le tre señoritas in costumi piumati - "Brasile!", "Perù!", "Colombia!" - le tre nazioni rispondono con esplosioni di bandiere, urla e percussioni. Nella scenografia spicca gigantesco il volto di un Indio. Ha l'aria non convinta.
Dietro il palco, a una distanza imprecisata, c'è il fiume, ma non è facile arrivarci a piedi. Leticia dà su una ramificazione laterale, che in questo periodo si ritira a decine di metri dal paese. M'incammino nel buio per ponteggi e piattaforme di legno. Le palafitte stanno alte sul vuoto lasciato dall'acqua. Gli alberi sono carichi di uccelli addormentati, come enormi grappoli neri. Nell'erba in basso brillano gli occhietti rossi di un caimano. Da una finestra vedo due bambini sdraiati per terra, la televisione accesa.
Il giorno dopo, su una barca a motore, finalmente vedo il corso principale del Rìo Amazonas. Ma lo sguardo è incapace di abbracciare questa enormità. Per definirla bisogna tornare alle mappe e alle misure inimmaginabili. In questo tratto il fiume è largo in media tre chilometri, si separa e si dirama in una vasta regione che cambia nel tempo. L'acqua sale di due-tre metri con le piogge, nuove isole si formano, altre scompaiono. Ci si può perdere tra anse e biforcazioni, secche e allagamenti. Soltanto in volo si può distinguere l'alveo del fiume alimentato da duecentoventi affluenti, sinuosi come radici d'acqua. Ma non si può semplicemente parlare di "acqua". In Amazzonia ne esistono tre specie: "bianca" (color caffellatte), "nera" (con riflessi rosso carne) e "chiara" (limpida), a seconda della presenza di sedimenti e residui organici. Le acque nere e bianche per lunghi tratti non si mescolano, formano corsi paralleli. Ognuna definisce un diverso ambiente, con diverse specie di piante e animali, che è vitale distinguere (l'acqua nera, per esempio, è priva di caimani e di zanzare). Tutte confluiscono nel gran fiume, il cui delta, dopo oltre seimilacinquecento chilometri di percorso, è largo duecentoquaranta chilometri. Allora l'enorme massa si scarica nell'Oceano colorandolo e inondandolo fino a centottanta chilometri da riva. Così la spedizione di Colombo che costeggiava il Continente si accorse che qui c'era Qualcosa.
Il modo migliore per esplorare questo mondo è aggirarsi tra gli affluenti minori, nel mio caso il Rio Gamboa e il Rio Yavarì con i loro sistemi di lagune, dove pernotto su anche tra gli alberi o nelle palafitte delle comunità indigene. La foresta è un'esperienza sensoriale e corporea difficilmente descrivibile. Lo sguardo si perde tra foglie e radici, l'olfatto rinasce. Il tatto è immerso in un'umidità primigenia, tra innumerevoli radici filiformi o nodose che salgono da terra e scendono dal cielo. Continuamente il piede affonda in strati morbidi di piante macerate, semi di mille forme e misure, formiche in processione, melma schioccante, correnti d'acqua fresca. Da ogni punto della pelle s'introducono fino alle viscere nuovi segnali con cui il corpo inizia a negoziare. L'udito avverte ma non distingue forme di vita che percorrono ogni spazio, che sentono, vedono e difficilmente sono viste. Aprendo la bocca si gustano i mille sapori delle cortecce aromatiche, dell'acqua dolce che esce dalle liane tagliate, dei frutti. Tutto questo è investito dalla pulsazione della pioggia, che cade improvvisa e violentissima e s'interrompe con rapidità. Ma queste impressioni non sono che un collo di bottiglia percettivo di una realtà concepibile solo con lo studio.
Arrivo alla comunità indigena di Gamboa, una striscia di palafitte sul lungofiume. Qui ogni ragazzino entra nell'età adulta da piccolo, quando riceve la propria canoa scavata nel tronco. S'infilano tra canne e fogliame a pescare. Tornano a riva a oziare sulla sabbia fangosa, mettendo in fuga i pulcini tra gli edifici sonnolenti: la scuola, la chiesa battista appena ridipinta, le grandi case di famiglia sotto cui dormono i cani.
"Nella foresta c'è tutto quel che serve, cibo, acqua, medicine, antidoti", mi spiega Pancho, un uomo della comunità, avanzando col machete tra le fronde. Le piante amazzoniche hanno funzionato a lungo come farmaci sono in un quarto dei nostri medicinali e sono ancora oggetto di ricerca. Tutto trova nuovi nomi sotto la guida della voce straordinariamente calma, lenta e silenziosa di chi qui vive da secoli. Il kapok, o lupuna, è l'albero più grande, che può arrivare fino a sessanta metri. Sulla corteccia passa la linea della marea, che nella stagione più piovosa sommergerà lo spazio in cui camminiamo. Le radici enormi del matamata sembrano tendaggi di legno. Pancho le colpisce col machete e un suono profondo si diffonde per la foresta: "E' l'albero-telefono. Se ti perdi, puoi comunicare la tua posizione a chilometri di distanza". Continua a spiegare che dalla bromelia, i cui fiori rossi attecchiscono su tronchi e rami come festoni, si estrae un veleno. La caferana e la uacapurana sono per il mal di stomaco. L'unia de gate è un antidolorifico. La cumaseba è contro il freddo. L'abuta combatte il diabete, il capinori il cancro, lo uambe agisce sulla prostata. La polvere dell'arbol talco distrugge i funghi della pelle. Pancho fa piccole incisioni sui tronchi e compaiono strati bianchi, rossi, arancio, si sprigionano profumi. Le radici rosse che serpeggiano nella terra sembrano vene esposte di un organismo gigantesco. Dai tagli nel caucciù scende un'emorragia di liquido bianco, che in mano si fa gomma.
Di sera il flusso delle voci animali sembra una cascata di cristalli. Il sonno è profondissimo, il risveglio è lento. Le conoscenze acquisite di giorno si raccolgono di nuovo nella sensazione, diffusa e potente, di essere in un'altra vita possibile, che non evolve necessariamente in quella che conduciamo nelle città.
Di avviso opposto è il presidente Bolsonaro, che in questi giorni ha rimarcato la sua idea che l'Amazzonia deve svilupparsi mediante il disboscamento, rivendicando polemicamente che gran parte del territorio "è nostro" - cioè di proprietà del governo brasiliano, non di altri paesi, né dei nativi sottosviluppati - e quindi sul mercato. Affermazioni rese possibili dalla conquista spagnola e portoghese di qualche secolo fa, che perdono senso su scale più ampie. Il pensiero di un'identità globale, necessario per arginare l'effetto distruttivo delle retoriche neoliberiste, può trarre molto dalla conoscenza di questo ecosistema tanto diverso dal nostro, con pochi angoli di interiorità (la scimmia urlatrice che ruggisce all'alba, l'uomo che cammina silenzioso, il tucano che l'osserva dai rami), tutto estroflesso nelle relazioni collettive, nella dipendenza reciproca, nella cooperazione di morte e vita, che ha ispirato diecimila anni di culture prive di denaro e diritti di proprietà prima che la civiltà capitalista decidesse che si trattava di una risorsa da sfruttare.
I primi europei a percorrere questo tratto del fiume furono nel 1541-1542, i marinai della spedizione di Francisco de Orellana. Il viaggio nacque quasi per caso, da un ammutinamento, nel corso di una esplorazione spagnola dell'attuale Ecuador. Pizzarro spedì la nave di Orellana a cercare provviste lungo il fiume Coca, i marinai imposero al capitano di non risalire la corrente e proseguire l'esplorazione. Discesero il Rio Napo e arrivarono, per altri affluenti, al gran fiume. Uno scontro con donne guerriere suggerì il nome delle Amazzoni. Secondo la testimonianza di Orellana, all'epoca lungo le rive fioriva una grande civiltà, che poi sarebbe stata decimata dalle malattie europee.
Senza saperlo anch'io ho seguito quel percorso la prima volta che ho visitato il bacino amazzonico. Mi trovavo a Quito, andai all'aeroporto e comprai un biglietto per Coca. L'aereo era un biplano a trenta posti, la compagnia si chiamava - maledettamente - "Icaro". Il volo fu spaventoso, sfiora le cime delle Ande salendo e cadendo come un otto volante. Fuori dal capannone dell'aeroporto, ancora scosso, entrai in un taxi locale. Il conducente mi chiese "che ci sei venuto a fare a Coca?" e in quel momento i miei occhiali da sole si spezzarono in due. Presi una piroga a motore che in poche ore mi portò in un rustico "ecolodege" gestito da una comunità indigena sul Rio Napo, dove quasi subito fu orgogliosamente servito un rinfresco di benvenuto: larve di scarafaggio su foglie di palma. Ci lavorava come volontaria una giovane spagnola affiliata a Survival.org, una delle ONG che si occupano di promuovere i diritti delle popolazioni indigene. C'era solo un altro ospite nell'area-campeggio, Diego, un basco silenzioso, dall'aria stralunata, che camminava nella foresta con sandali e jeans strappati, indifferente alle sanguisughe e alle punture d'insetto. Mi disse che faceva il falegname e che una volta all'anno, d'estate, lasciava moglie e figlia per venire nella selva.
La fauna del Rio Napo era meno timorosa di quella che ho trovato lungo il Rio delle Amazzoni. Ogni sera falene e serpenti si raccoglievano sulla piattaforma di legno. All'alba gli hoatzin, uccelli simili a grossi fagiani, rumoreggiavano tra i rami degli alberi sulla laguna. María raccolse delle bacche di annatto (o bixa orellana, in onore al navigatore) e ci dipinse delle strisce rosse sul viso. Con lei e Diego camminavamo per sentieri invisibili tra gli alberi e di sera si andava a osservare i caimani, gli stessi che di giorno stavano a guardare mentre tre europei dissennati si tuffavano nella laguna torbida. Un indio ci faceva da guida, indicando i buchi negli alberi da cui si sporgevano le scimmie notturne, gli aoti vociferi, con gli occhi arancioni accecati dalla luce e preoccupati dagli strani intrusi. Visitammo la palafitta dell'indio, nascosta nella vegetazione a pochi metri dal fiume. La casa era povera, i bambini avevano vari problemi di salute. Gli animali domestici erano una scimmia ragno e una enorme tarantola, che la figlia piccola giocava a seguire sul pavimento. Per l'occasione, sotto le foglie di palma, fumava un banchetto di benvenuto. Di nuovo larve, in bianca pappa di platano.
L'indio aveva trent'anni, ne dimostrava sessanta. L'avevano chiamato Washo - Washington - come il Presidente di un paese lontano.
In barca verso il Rio Yavarì, in territorio peruviano, ricevo informazioni sula regione da Antonio, che è stato pescatore, studente di scienze naturali a Manaus, poi è tornato a fare la guida turistica sulla frontiera. Mi parla dell'aumento della temperatura e della diminuzione dei pesci, esportati a 40 tonnellate al giorno solo nei pressi di Leticia. "Quando ero piccolo mio padre batteva i piedi nella barca e subito decine di pesci saltavano dentro". Oggi i pesci sono di meno e molti animali terrestri sono scappati dopo decenni di bracconaggio per la vendita di pelli, piume e altri trofei. Il turismo è uno stimolo ad abbandonare queste pratiche o a combatterle. Osservo che mi sembrano un po' troppi i passaggi di rumorose barche a motore, che lasciano una schiuma bianca sul lungofiume del Gamboa. Comitive di colombiani si spingono fin qui solo per tramortirsi di cibo, farsi lunghe dormite nelle amache e un rapido bagno. "E' vero", concede Antonio, "qui ormai c'è un po' di traffico. Però è un'area molto limitata. Alcune guide sono ex-bracconieri, ex-cercatori d'oro, ex-boscaioli, che lavoravano in tutta la regione. Meglio così per tutti.
Antonio parla la lingua yukuna, sua madre è indigena. Parliamo della prossimità tra uomo e natura tipica delle culture locali. Le maschere di giaguari e altri animali sono impiegate, tra le altre cose, in una cerimonia di ospitalità. Gli ospiti arrivano vestiti da animali e danzano per un giorno sotto gli occhi degli anfitrioni, privi di maschera. La notte la danza degli "animali" continua fuori dalla casa, riproducendo i suoni della foresta. Il giorno dopo gli "animali" si smascherano e si uniscono agli "umani" in casa, dove tutti danzano insieme.
Nelle teche del museo etnografico di Leticia, insieme a costumi e cerbottane ho visto anche gli accessori con cui gli sciamani tritano e fumano le piante allucinogene. Chiedo a Antonio se in zona ce ne sono ancora, di sciamani. "Certo, ci sono. Ma vivono appartati nella selva. Con l'arrivo dei turisti è diventato uno spettacolo". "Un mio amico che vive in Russia, vicino al lago Bajkal, mi diceva cose del genere sullo sciamanismo siberiano. Dice che ormai è soprattutto uno show-manism. Finte cerimonie in costume per turisti russi e cinesi".
"Quando ero piccolo qui c'era quest'uomo, si faceva chiamare El Indio amazónico. Un falso sciamano, un buffone. Andò a Bogotà vestito di piume. Prometteva soluzioni per denaro, amore, lavoro, impotenza. Leggeva mani, occhi, tarocchi. Guadagnò molto denaro, ma dopo un po' non lo prendevano sul serio. Se n'è scappato a fare lo "spiritista" a Miami dove nessuno si accorge dell'inganno. Si è comprato una spider, ora sta in California".
A parte questi casi isolati, dal punto di vista delle culture indigene la colonizzazione ha portato soprattutto sfruttamento e distruzione. Antonio è il primo a nominarmi un romanzo, La voragine (1922) di Josè Eustasio Rivera, che tutti qui conoscono perché si legge nelle scuole. Racconta di due amanti che scappano da Bogotà e vanno nella "selva oscura" amazzonica. Qui i due copriranno come l'impresa di raccolta del caucciù del peruviano Julio César Arana ha prodotto un vero e proprio genocidio. Rivera basò il racconto sulla sua esperienza di viaggio nel sudest della Colombia, trasformandola in un romanzo modernista che adotta lo schema classico del viaggio negli inferi, da cui però la coppia di protagonisti non ritorna.
Il movimento di discesa da Bogotà alla foresta è ripreso nella serie di Netflix Frontera verde (2019), che è stata girata da queste parti. La serie usa attori e lingue indigene, aumentando il contrasto con la cultura ispanofona dei Bianchi. Ma in Frontera verde il rapporto tra Bianchi e indigeni ha una doppia valenza. La protagonista Helena, colombiana, è un'investigatrice venuta dalla capitale per indagare sulla mote di alcune suore e di una misteriosa indigena il cui corpo resta intatto dopo la mote. Si tratta per lei di un ritorno alle origini, perché Helena è figlia di due studiosi della foresta ed è nata proprio da queste parti. L'indagine comporterà un chiarimento sulla drammatica scomparsa di sua madre e l'acquisizione magica di un'identità seconda, vicina a quella degli indigeni. All'altro polo ci sono una serie di Bianchi ostili alle culture locali, capeggiati da un nazista. L'invenzione di questo cattivo, mosso dall'intento esoterico di appropriarsi del sapere segreto della foresta, si ispira a una circostanza storica: l'emigrazione tedesca nel Dopoguerra, coda di un processo di massa iniziato a metà Ottocento che ha profondamente condizionato l'identità brasiliana e amazzonica (lo raccontava Edgar Reitz nel suo film Die andere Heimat. L'altra patria, 2013). Frontera verde evoca con efficacia le voci, le lingue, il paesaggio di questa regione sviluppa le sue tensioni - l'identità spezzata di paese meticcio, la mercificazione del territorio, l'eredità delle morenti culture amazzoniche - fino a un finale forse deludente, che richiude ogni ferita con una confezione metafisica.
Queste narrazioni colombiane proseguono una riflessione avviata in queste terre dagli Europei e finalmente ne fanno un dialogo a più voci: le basi di questo dialogo furono dettate dalle prime opere di autocritica coloniale come la Brevissima relazione della distruzione delle indie (1552) del domenicano Bartholomé De Las Casas; l'idea di un confronto alla pari fu introdotta dagli scrittori della Francia illuminista e, nel Novecento, da Calude Lèvi-Strauss, che in base a anni di ricerche sul campo confrontò le società "fredde" di quelli che un tempo si chiamavano "selvaggi", statiche e immerse in uno stretto rapporto con l'ambiente naturale, e le società "calde" occidentali, dinamiche e sensibili ai mutamenti storici, interrogandosi sui diversi sistemi cognitivi che vi corrispondevano. Ma il maggiore monumento di questo incontro-scontro è il libro "a due io" che l'antropologo Bruce Albert ha scritto insieme allo sciamano Davi Kopenawa, La caduta del cielo (2010).
I due autori si sono conosciuti nelle terre degli Yanomami, dov'è nato e cresciuto Davi Kopenawa, a un giorno di barca dai luoghi che sto visitando. La vita di Davi è scandita dai momenti-chiave dell'incontro tra due popolazioni: nato negli anni Cinquanta e cresciuto nella foresta, assiste all'arrivo dei Bianchi che vengono a tagliare alberi, cacciare animali, cercare oro, infine a costruire una strada; testimonia la messa in discussione delle tradizioni locali, il diffondersi delle epidemie, la conversione al cristianesimo, l'arrivo di beni e di "nuove parole", ragionamenti minacce e promesse degli invasori mossi dal profitto, la nascita di organizzazioni a tutela degli indigeni. Tutte esperienze che Davi Kopenawa ha vissuto in prima persona, apprendendo la tradizione sciamanica, poi imparando a parlare il portoghese, convertendosi temporaneamente alla fede cristiana e studiando da infermiere, andando a vivere e lavorare con i Bianchi come lavapiatti, poi interprete per la FUNAI (la Fondazione nazionale dell'Indigeno), per rompere infine con i Bianchi e tornare orgogliosamente al suo mondo e alla sua lingua viaggiando occasionalmente per promuovere la sua causa di fronte a platee internazionali. Esperienze che ha deciso di trasmettere in un racconto su "pelle di carta" che è insieme un'autobiografia, un'enciclopedia mitologica degli Yanomami - ben più imponente e rigorosa di altri classici della documentazione etnografica come Dio d'acqua di Marcel Griaule - e la storia di un conflitto interiore e esteriore: politico, sociale, economico, linguistico, filosofico.
Colpisce la lucidità con cui Kopenawa, che non a caso è diventato un protagonista dell'attivismo indigeno, descrive il pensiero dei Bianchi:
I loro capi continuano a dire: "Noi siamo potenti! Possederemo tutta la foresta, Che i suoi abitanti muoiano! Si sono stabiliti senza una ragione su quella terra, che ci appartiene!" Questi Bianchi pensano solo a ricoprire la terra con i loro disegni [le mappe] per tagliarla a pezzi e, infine, cedercene solo alcune parti circondate dai loro giacimenti e delle loro piantagioni. Dopo di che, soddisfatti, dichiareranno: "Ecco al vostra terra. Ve la diamo!".
Colpisce anche il suo elenco dei fattori che distruggono il mondo della foresta e suscitano la sua collera. Il pensiero degli sciamani della sua infanzia, scrive, "non era ancora offuscato dalle merci - pentole, machete, vestiti e così via - ha aperto la strada ai Bianchi. Lo stesso Davi ha desiderato pantaloni, scarpe, orologi, camicie, occhiali e altro:
Non smettevo di pensare al momento in cui sarei diventato adulto e mi dicevo: "Un giorno, possiederò un motore per correre su e giù lungo i fiumi con una grande barca, come i Bianchi!"
Insieme alle merci sono arrivate le epidemie di influenza, morbillo, malaria, tubercolosi, che hanno profondamente colpito la popolazione degli Yanomani. Poi ci sono le "parole" dei Bianchi, che invadono lo spazio della foresta con altrettanta virulenza: "Le loro parole entrano nei nostri pensieri e li offuscano". Si parla di oro, bestiame, colture, ma anche di Dio (Teosi), Satana (Satanasi), Gesù (Sesusi), peccato e inferno: tutte parole che, secondo Kopenawa, sarebbero servite da strumento per assoggettare e ingannare la gente locale. Tutta la sua gente ha subito il fascino della merce e delle parole, si è creduta protetta, mentre stava venendo decimata e chiusa in un recinto.
I tre fattori merci, parole e malattie costituiscono il paradigma con cui Kopenawa analizza il processo della colonizzazione, quasi a fare da contrappunto all'analisi di Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie. Ma i tre fattori di Kopenawa rendono conto di un'invasione non soltanto materiale, bensì anche psicologica. Considera le parole come realtà che si muovono nella mente, restano in circolo, formano collegamenti, diventano gesti, orientamenti, tracciano percorsi che si possono seguire e su cui ci si può perdere pericolosamente. Su questo punto lo sciamano non esita a criticare la superficialità e la ristrettezza della sua gente:
Le persone comuni non pensano a queste cose. Quando vedono arrivare dei cercatori d'oro o altri Bianchi, la loro mente rimane vuota. Allora, si limitano a sorridere chiedendo del cibo o delle merci. Non si domandano: "Cosa devo pensare di questi Bianchi? Cosa vengono a fare nella foresta? Sono pericolosi? Devo difendere la mia terra e scacciarli?" No, il loro pensiero rimane piantato ai loro piedi, senza poter avanzare. Riescono solo a dirsi: "Perché preoccuparsi? La foresta è molto vasta e non può essere distrutta. Cerco piuttosto di ottenere vestiti e cartucce!" Quando il pensiero della nostra gente è così confuso, diventa come un cattivo sentiero nella foresta. Lo si segue a fatica nella vegetazione intricata e oscura, si inciampa, si finisce per cadere in un buco o in un corso d'acqua, ci si cavano gli occhi con delle spine o si viene morsi da un serpente. Io, invece, ho voluto prendere un cammino libero la cui chiarezza si apre lontano davanti a me. E' quello delle nostre parole per difendere la foresta".
Seguire le parole Yanomami è quindi un'esigenza pratica, una necessità vitale:
Solo loro possono renderci felici. Imitare quelle di Teosi e dei Bianchi non porta a nulla. Possono solo tormentarci. Ecco perché penso che dobbiamo seguire le tracce dei nostri anziani, come i Bianchi seguono quelle dei loro".
Ma in questo libro, che per su natura è rivolto ai Bianchi, non si tratta di rifiutare ogni contatto. Questa è piuttosto una controffensiva filosofica delle culture amazzoniche in genere, tutte collegate da affinità profonde come il credito assegnato ai viaggi estatici e alle visioni di spiriti naturali indotte da funghi e piante (la "polvere yakoana" degli Yanomami, che in altre culture si chiama yakruna e con altri nomi simili). Le parole degli sciamani, rimarca Kopenawa, comportano rappresentazioni, valori, modi di vivere diversi, che egli intende orgogliosamente esporre ai Bianchi per invocare un loro ravvedimento. Certo, in queste pagine circola quello che non può che apparirci dogmatismo ("E' così", ripete spesso Davi, per asseverare le sue verità). La cosmologia tradizionale alimentata dalle visioni sciamaniche produce numerosi equivoci geografici e scientifici. Il rifiuto in blocco della cultura che ha conosciuto con gli ammonimenti dei missionari e le violenze dei cercatori d'oro non è moderato dal riconoscimento del contributo di altri Bianchi in difesa della sua cultura e della gentilezza dei medici che l'hanno guarito dalla tubercolosi. Ma al tempo stesso c'è l'esercizio del dubbio, basato sull'immersione in quell'altra identità (per esempio Kopenawa continua a interrogarsi sull'esistenza dell'invisibile Teosi, il Deus dei brasiliani, confrontandolo con gli spiriti xapiri che le piante invece gli fanno vedere).
Ne La caduta del cielo c'è un'elaborazione basata sul confronto culturale e tecnologico, come quando Kopenawa paragona le immagini degli spiriti-animali a delle "fotografie", immagini accessibili solo agli iniziati, di cui gli animali concretamente osservabili nella foresta sono copie mortali, "rappresentanti - insomma, quasi idee platoniche che stanno alla base dell'ordine naturale. E c'è la volontà di comunicare, e quindi tradurre, un'intera visione del mondo a quelle culture cui Kopenawa si rivolge nel suo libro, per far passare almeno un messaggio: "la foresta è viva. Può morire solo se i Bianchi si ostinano a distruggerla". Questa ostinazione ha esiti apocalittici. La morte della foresta farebbe scomparire gli sciamani con le loro visioni, che si oppongono alla distruzione, e "allora moriremo gli uni dopo gli altri e così anche i Bianchi. Tutti gli sciamani periranno. Quindi, se nessuno di loro sopravvive per trattenerlo, il cielo crollerà".
Davi Kopenawa ha percorso un viaggio inverso a quello di tanti Bianchi, dalla foresta alla città e ritorno. Il risultato è un caso unico: la sua voce sapiente e appassionata, che prende la parola con l'assistenza di Bruce Albert, incarna lo sguardo che Montaigne (nel saggio Sui Cannibali), Rousseau (nel Discorso sull'origine della disuguaglianza) e Diderot (nel Supplemento al viaggio di Bouigainville) avevano attribuito al loro indigeno immaginario, facendolo parlare contro l'intolleranza religiosa, la proprietà privata, i lussi, il colonialismo, lo schiavismo, la morale sessuale cristiana. Allo stesso sguardo straniato di Kopenawa le più pacifiche certezze europee appaiono come ridicole assurdità. Così la convinzione che le "pelli di carta" (il denaro) e i "disegni sulla terra" (territori sulle mappe) abbiano un valore. Così l'avido attaccamento al cibo e agli utensili domestici, che i Bianchi concedono solo in cambio di lavoro o li negano perché "Hanno un prezzo". Così la vorace ricerca dell'oro dei cercatori (garimpeiros), paragonati a pecari che mangiano la terra. Con loro Kopenawa ha il suo primo scontro armato e dialoghi di aperto scherno quando questi provano a blandirlo con le loro menzogne:
"Vogliamo cercare l'oro con voi! Siamo amici! Davi, faremo di te un grande capo!" Sentire di nuovo queste parole mi mandò in collera. Gli risposi: "Io non so fare il capo e non mangio l'oro! Non me ne faccio niente di quella polvere che brilla nella sabbia. Dovrei essere un caimano per inghiottirla! Non voglio niente da voi e non vi lasceremo lavorare qui!
Esco dal cosmo amazzonico dal Rio Yavarì approdando alla cittadina brasiliana di Benjamin Constant. La gente beve birra sui barconi ormeggiati, con l'aria di chi non s'aspetta niente. Da qui torno con un motoscafo pubblico fino a Tabatinga, un villaggio di baracche pieno di polli e cani affamati. Proseguo a piedi fino a Leticia. Gli alberi si diradano, lo sguardo si riabitua ai campi coltivati. La deforestazione spicca e induce la riflessione ecologica, come oggi è ovvio. .Lo era meno all'inizio dell'Ottocento, quando Alexander von Humboldt nel suo Viaggio nelle regioni equinoziali del Nuovo Continente analizzò su basi scientifiche l'impatto del disboscamento e delle monoculture sull'equilibrio ambientale, denunciando che "le malefatte dell'umanità disturbano l'ordine naturale". Dopo due secoli è possibile e urgente precisare questa analisi: il disboscamento risponde principalmente alla domanda di colture di soja destinate agli allevamenti europei e cinesi, dunque dipende ancora da culture lontane dall'Amazzonia. La lotta indigena ha quindi una portata globale, al tempo stesso ecologica e culturale. La posta in gioco è la foresta, che continua a comparire nel nostro immaginario come un luogo eterno ma in realtà può morire, come nella profezia di Kopenawa.
Sull'altra sponda del fiume si vede ancora la cresta verde degli alberi, rassicurante nella sua massa sconfinata. Tabatinga sembra un'altra cittadina brutta e caotica sull'orlo di una natura pittoresca, che offre pace e bellezza, trovando nei turisti un nuovo argine alla distruzione. Ma la lotta è in corso anche qui, con le tribù del rio Yavarì. tra un mese, quando sarò tornato in Italia, per strada a Tabatinga uccideranno Maxciel Pereira dos Santos, funzionario della FUNAI e attivista dei diritti degli indigieni. La pace è un'illusione estetica.